Valdo



Il 10 Agosto feci un sogno che mi cambiò la vita.
Ogni volta che lo dico raccolgo sorrisi di compiacimento e ironici incoraggiamenti: racconta.
Capiamoci, ero un manager, ho fatto studi scientifici e solo scientifici, non ho alcuna propensione per il romanticismo o il sentimentalismo o lo spiritualismo. Per capire che non si tratta di nulla di tutto questo bisogna partire dal 10 luglio.
Quel giorno era un venerdì, avevo lasciato la città torrida e mi ero rifugiato in una fresca pensione di montagna.
Più del caldo fuggivo però la disperazione.

Facevo il bilancio dei miei fallimenti e vedevo solo conti in rosso, in ogni direzione. Faccio bene il mio lavoro e ho fiuto e tecnica con le “risorse umane”. Ma sono assolutamente negato con le relazioni umane.
Le mie tre mogli e le disparate amanti me l'hanno urlato più volte.
D'altronde, oggettivamente devo dar loro ragione.
Ma conoscere la malattia non equivale a trovare la cura. Le cose con l'ultima amante si erano pasticciate dagli inizi di luglio lasciandomi nell'angoscia. Forse sfibrato dai continui fallimenti non credevo di avere ancora risorse per ricominciare. L'idea del suicidio mi corteggiava come un letto dopo una giornata intensa.
Giunsi alla pensione nelle tarde ore del pomeriggio, depositai il bagaglio leggero e presi la via del bosco con una lattina di birra in mano. Camminavo guardando a terra, senza vedere né gustare la brezza tra gli alberi e i tenui raggi di sole. Quando il bosco si aprì, di lontano vidi una gregge di pecore e mi ricordai di un vecchio pastore che avevo conosciuto da bambino e si era conquistato la mia simpatia.
Chissà se era vivo, difficile: era vecchio quando io ero bimbo, appunto.
Ad ogni modo mi avvicinai al gregge e lo riconobbi subito: “Valdo”, gridai. “Ingegnere Giorgio” rispose.
Solo a guardarlo gli incubi sparivano.
“Come va?” domandai.
“Bene. Le pecore hanno erba grassa e acqua fresca, gli alberi sorridono al sole che tramonta, l'aria è pulita. Tutti doni del Signore”.
Mi sedetti accanto a lui guardando la montagna dietro cui il sole scendeva e la valle dove le ombre si allungavano.
Chissà quanti anni ha questo vecchio, mi interrogavo, e chissà come fa a non essersi stancato di fare tutti i giorni le stesse cose e le stesse vedere.
Avrei voluto che mi spiegasse questa felicità a me sconosciuta, ma non sapevo come porre la domanda. Non potevo chiedere ancora “come va?”, sarebbe stato idiota.
Allora gli chiesi:”Parlami della tua vita Valdo. Sei mai stato innamorato?” Appena espressa la domanda mi diedi dello stupido. Ma come avrebbe potuto innamorarsi questo povero pastore sempre solo quassù? E se anche si fosse innamorato, quale donna avrebbe sopportato la sua puzza?
Valdo mi guardò e un lampo gli illuminò lo sguardo: “Oh si e lo sono ancora.
Lei è la figlia del conte e io da giovane ero lo stalliere di suo padre. Le preparavo il cavallo e la guardavo partire e tornare. Era bella come il sole.”
“Le hai mai detto che eri innamorato?”
”Certo che glielo dissi. Un giorno mentre metteva il piede nella staffa alzò lo sguardo e i nostri occhi si incrociarono. Io le sorrisi e le dissi: ti amo.
Lei lasciò la briglia, mise la mano sulla mia spalla, mi trasse a sé e mi baciò.”
“E poi?”
“Suo padre ci scoprì.”
“E poi?”
“Mandò lei in un collegio e me a pascolare le pecore”
Ma guarda un po', chi l'avrebbe mai detto? stupii io.
“L'hai più rivista?”
“Alla fine della guerra, prima ancora di tornare quassù, passai da lei che abitava in città. Suonai e chiesi alla cameriera se potevo parlare con la contessa per cose personali. Quando mi vide fece una smorfia come per un cadavere in putrefazione. Ordinò alla cameriera di accompagnarmi alla porta e girò le spalle.
“Che peccato” conclusi io.
“Peccato? Perché?” replicò Valdo. “Io l'ho amata per settanta anni, non l'ho mai tradita, mai picchiata né dimenticata. E lo stesso vale per lei. Alle pecore parlo di lei, il vento canta tra gli alberi il nostro amore, ogni sera il sole lo festeggia. Quanti possono dire di aver amato tutta la vita la stessa donna?”
Certamente non io, pensavo, e mi si riaccese nel cuore il dolore dell'ultimo abbandono, come se l'inferno stesse prendendo d'assalto il paradiso.
Chiesi a Valdo se facesse ancora il suo fantastico formaggio. Certamente. Prendemmo il sentiero verso l'ovile seguiti dalle pecore. Valdo abitava in una casupola di pietra lì vicino, di una sola stanza, nel retro faceva il formaggio e ne stoccava le forme sugli scaffali appoggiati alla parete.
“Quanto costa?” chiesi. Mi indicò un cartello ingiallito dal tempo: Una forma, due euro.
Prese la moneta e la gettò in una cassettina accanto alla porta.
Quella notte feci un sogno strano. Ero tra le pecore di Valdo quando udii lo zoccolare di un cavallo. Mi volsi e vidi venire un grande cavallo bianco con un cavaliere dall'armatura lucente. Ero contento come un bambino al parco giochi ma proprio allora mi svegliai. Cercai inutilmente di riaddormentarmi per ritrovare il cavallo bianco ma dovetti rinunciare e dopo un po' mi alzai per la colazione, triste come chi ha mancato l'appuntamento con la fidanzata. Protestavo con il dio dei sogni che mi aveva tolto l'osso prima che potessi gustarlo. L'aria era ancora umida di rugiada quando salii il sentiero. Le pecore non erano sul prato. Camminando nei dintorni le sentii belare nell'ovile. Mi avvicinai, non c'erano altri segni di vita.
Bussai alla porta della casa ed entrai. Valdo era disteso sul letto, sorridente, ad occhi chiusi. Era freddo.
Non sapendo che fare chiamai alla pensione. Circa un'ora dopo venne un carro funebre, caricarono Valdo e lo portarono all'obitorio.
Andai alla formaggeria e misi in un sacchetto i soldi dei formaggi. Poi all'ovile aprii la porta ma le pecore impaurite smisero di belare e si trassero indietro. Mi sedetti su una pietra lì vicino e aspettai che superassero la timidezza.
All'obitorio seppi che Valdo non aveva parenti e che quei cadaveri non reclamati spesso dovevano attendere per mesi una qualche sistemazione.
Con i soldi dei formaggi e altri di tasca mia predisposi il funerale che ebbe luogo lunedì nel pomeriggio. La mattina passò nel disbrigo di formalità burocratiche, tra continui squilli del mio cellulare, perseguitato dal personale dell'ufficio disorientato dall'assenza.
Il prete celebrò la messa per noi due, io e Valdo, intendo. Lo accompagnai al cimitero a guardai la terra coprire la bara.
Martedì recuperai il lavoro lasciato indietro il giorno prima, ma già mercoledì mi diedi da fare per raccogliere notizie sulla contessa.
Donna inquieta, dai molteplici amori, senza figli e senza eredi. Chissà cosa voleva dire Valdo dicendo che anche lei era rimasta fedele al suo amore.
Una segretaria sbirciando sul mio monitor il nome della contessa, mi disse che non ci aveva ancora pagato. In effetti le avevamo installato qualche mese prima un piccolo sistema di videosorveglianza, pochi soldi ma ancora da saldare.
Consultai la scheda della lavorazione e chiamai il tecnico responsabile.
Era un uomo di mezza età, con i capelli rossicci, tarchiato, che guardava per terra e rispondeva con gesti bruschi e frasi tronche.
Gli chiesi notizie di quell'impianto e mi relazionò brevemente guardandomi di sbiego sospettoso.
“Le telecamere sono state tarate con l'illuminazione del vialetto?” indagai.
“Si”, confermò, “avremmo potuto certo installare il modello superiore con l'autofocus ma la contessa ...”
Non avevo detto nulla e non rimproveravo nulla ma il mio dipendente già scopriva il fianco. Evidentemente avevano usato i modelli a magazzino senza studiare la situazione specifica ma la cosa in sé era frequente e non mi preoccupava affatto.
“Che mi dice della contessa?” chiesi. Dovetti ripetere la domanda perché sembrava non aver sentito: “Che tipo è?”
Misurando le parole ma anche con un senso di liberazione: “Insopportabile. Una vecchia impicciona, bisbetica, sempre insoddisfatta. Naviga nei soldi ma si fa un punto d'onore di ottenere lo sconto. Una donna acida. Non stupisce che nessun marito l'abbia sopportata a lungo.”
Feci telefonare alla contessa per prendere un appuntamento e parlare dell'insoluto.
Mi presentai all'appuntamento con una telecamera mimetizzata nel taschino. Volevo raccogliere più informazioni possibili su quella donna e analizzarle con calma.
La domestica filippina mi fece accomodare in un salotto in penombra, con una enorme televisione su un lato e un divano sul lato opposto, dove un incavo suggeriva che qualcuno lo usasse in modo abitudinario.
La contessa si presentò con una camicetta nera e pantaloni lunghi neri, tetra. Aveva un foglio con l'annotazione dei difetti del nostro impianto. Naturalmente erano difetti inconsistenti, ma io presi nota e mi impegnai a risolverli. Lei era seduta di fronte a me, aveva lasciato scivolare il foglio sul tavolino e mi guardava distante e insofferente.
Mentre completavo i miei appunti le dissi, senza guardarla, che leggendo la nostra documentazione avevo scoperto che lei era nata nelle stesse montagne dove passavo le vacanze fin da bambino.
“Davvero?” replicò senza interesse.
“Si” ripresi, “sono stato lassù anche due settimane fa.”
“Mi fa piacere”
“Avevo conosciuto un pastore, un brav'uomo”, continuai con gli occhi sempre sui miei appunti. Lei non rispose e io continuai: “È morto due settimane fa. Mi è dispiaciuto molto. Lei proprio non lo ricorda?”
“No.”
Più tardi, guardando e riguardando la registrazione, vidi soltanto i tratti del suo volto irrigidirsi quando sentì parlare di Valdo. Come un lampo di cattiveria e disgusto.
Guardavo sul monitor quel volto e quelle espressioni e lo confrontavo con quello pieno di calore e di affetto di Valdo, quella stanza buia e triste con le montagne luminose e ridenti e mi interrogavo sui sentimenti umani, su quanto vale amare e quanto essere amati.
Veniamo infine al sogno del 10 Agosto.
Mi trovavo nel salotto della contessa, lei sprofondata nel divano dormiva profondamente, la televisione accesa forse su qualche film horror. Un senso di paura e oppressione mi prese tutto. Ad un tratto suoni terribili, voci e grida meno che umane. Un grande numero di esseri neri con occhi rossi brace, mezzi uomini e mezzi animali, chi con la testa di lucertola, chi con gambe d'asino, chi con la coda o con pinne di pesce. Salivano dal pavimento, si arrampicavano sui muri, poi si gettavano sulla contessa che urlava disperata, la arpionavano con rostri acuminati facendo schizzare sangue ovunque. La trascinavano più in basso, nel buio, tra urla e fumo, mentre le strappavano i vestiti, e più sprofondava più ringiovaniva.
Poco dopo era completamente nuda, una bellissima donna sui 18-20 anni, la schiena, i seni, le gambe grondavano sangue per le ferite inferte dai diavoli, mentre lei si aggrappava al divano, alle sedie, al pavimento urlando terrorizzata.
Io ero immobilizzato dal terrore, incapace di parlare e di scappare.
Quando ecco lontano, fioco un rumore leggero di zoccoli di cavallo.
Un lampo di luce improvviso, un cavallo bianco piombò sui diavoli, mentre il cavaliere dall'armatura lucente vibrava sciabolate sui diavoli che fuggivano bestemmiando e squittendo.
Io ero entusiasta e battevo le mani urlando come allo stadio: “Valdo, Valdo, Valdo ...”
Lui la afferrò, la caricò sul cavallo e sparirono in un attimo verso il cielo.
La notte di San Lorenzo, tra le stelle cadenti, morì la contessa, non rimpianta da alcuno.
Per quanto mi riguarda non mi importa se ridete di me e dei miei sogni.
A me importa che le mie pecore abbiano erba grassa ed acqua fresca. E i miei formaggi vengono due euro la caciotta.

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